Signor Presidente del Consiglio, signore e signori ministri,
grazie innanzitutto per l’invito che ci avete rivolto a
partecipare a questo incontro.
Il compito che tocca al vostro Governo è immane. Non
sfuggono a nessuno, e certo non alle imprese, le difficoltà
estreme con cui l’Italia si trova a dover assumere decisioni
essenziali, su un problema così complesso come la bassa
crescita strutturale da decenni. Aggravata da nuove ferite
profonde a ogni crisi.
Ed è proprio partendo da questo oggettivo e sincero
riconoscimento della condizione in cui vi trovate ad operare,
voi come Governo e noi come forze della produzione, del
lavoro e della società civile, che riteniamo opportuno però
usare il linguaggio della franchezza.
Partirò quindi da alcune considerazioni di principio, per
sgomberare il campo da polemiche che non piacciono a noi,
come non piacciono a voi.
Quanto ho affermato in questi giorni sono esternazioni
riferite esclusivamente ai temi economici del Paese e nulla
hanno a che vedere con temi politici.
Perché è un fatto, che le scelte pubbliche adottate in Italia
negli anni alle nostre spalle abbiano reso più duraturi e gravi
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che in altri Paesi Ue i colpi portati dalla grave crisi mondiale
del 2008 e da quella europea del 2011.
E’ un fatto, che l’Italia era l’unico Paese UE già alle porte
della recessione prima del virus: non solo per il freno al
commercio mondiale e al nostro export dovuto alle guerre
protezionistiche, ma perché le decisioni pubbliche in Italia
avevano congelato la ripresa degli investimenti privati che,
grazie a Industria 4.0, con l’export, avevano costituito la
base della ripresina 2015-17.
E’ un fatto, che alla fine del 2019 eravamo l’unico grande
Paese UE a dover ancora recuperare quasi 4 punti di PIL
rispetto ai livelli del 2008.
Come è un fatto, non un’opinione, che le misure economiche
assunte in Italia a fronte del virus si siano rivelate più
problematiche che in altri Paesi UE.
La CIG l’hanno dovuta anticipare in vasta misura le imprese.
E così sarà anche per le ulteriori 4 settimane varate lunedì.
E analogo ritardo viene dalle procedure per i sostegni alla
liquidità delle imprese.
Come è un fatto, non un’opinione, che governi di ogni colore
negli anni alle nostre spalle abbiano privilegiato la spesa
corrente e un’infinità di bonus a tempo rispetto agli
investimenti pubblici e a riforme strutturali: col risultato che
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siamo in Europa il Paese per debito pubblico
drammaticamente più esposto a rischi di sostenibilità della
nostra finanza pubblica.
La riflessione che abbiamo condotto in Confindustria parte
proprio da questo punto: ora che il virus ci mette di nuovo
con le spalle a terra, c’è un errore che non possiamo
permetterci il lusso di commettere.
Per un Paese trasformatore come noi siamo, l’impegno
contro la nuova dolorosa recessione può avere successo solo
se non nascondiamo a noi stessi colpe ed errori che abbiamo
commesso, tutti, negli ultimi 25 anni.
E contano non solo riflessioni e proposte appropriate,
Presidente Conte, ma anche alcuni gesti simbolici e
dimostrativi, per testimoniare che si volta pagina.
Lo Stato deve rispettare le sentenze della
magistratura. Emblematico il caso della mancata
restituzione di 3,4 miliardi di euro di accise sull’energia,
impropriamente pagate dalle imprese e trattenute dallo
Stato nonostante una sentenza della Corte di Cassazione che
ne impone la restituzione.
Lo Stato deve rispettare i contratti e onorare i propri
debiti. Non è più accettabile che per smaltire i debiti
arretrati occorra ogni volta adottare provvedimenti
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straordinari che rimediano solo in parte al pregresso
accumulato, quando basterebbe semplicemente applicare le
stesse regole che si applicano ai privati, consentendo loro di
compensare debiti e crediti verso lo Stato.
Presidente Conte, noi non siamo affatto convinti che ci sia
uno Stato cattivo e un privato buono. Noi ci limitiamo a
pensare che ogni democrazia moderna vive e progredisce se
ha istituzioni efficienti e funzionanti, se ha cioè una Pubblica
Amministrazione buona - come l’ha definita proprio in
questa sede il Governatore della Banca d’Italia.
Per questo, Presidente, è fondamentale iniziare presto con
misure concrete, ma che siano anche ad alto valore
simbolico.
E’ vero e lo ribadisco: per noi sarebbe stato preferibile
ascoltare un quadro preciso delle priorità intorno alle quali
governo e maggioranza intendono articolare i propri
interventi, con un preciso cronoprogramma e una seria
valutazione ex ante delle misure, degli stanziamenti e degli
impatti attesi sul PIL.
Una lista infinita di interventi su ogni ambito della vita
italiana non indica priorità, mostra solo l’ampiezza dei
problemi aperti.
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Né è possibile assumere come programma d’azione alcune
indicazioni generiche come quelle che abbiamo letto sui
media: “la riforma del fisco”, “la riforma del diritto
societario”, “la riforma degli ammortizzatori sociali”.
Fatte come? In vista di che obiettivi?
Colgo invece questa occasione per indicare almeno
sinteticamente la visione delle priorità a giudizio di
Confindustria. Nella speranza che di qui in poi il confronto
tra Governo e Imprese sia serrato e costruttivo: perché i
tempi sono stretti e il tempo lavora contro gli interessi del
Paese.
Siamo nelle condizioni di offrire all’attenzione del Governo e
di tutte le parti sociali una riflessione molto approfondita del
piano di riforme che a nostro giudizio dovrebbe incardinare
la base delle proposte che l’Italia dovrà presentare in
autunno all’Europa per avere accesso ai trasferimenti e
crediti del Recovery Fund, che ci auguriamo venga
approvato nella versione varata della Commissione Europea.
Una parola, su questo.
Se sommiamo;
• l’estensione ulteriore dei programmi straordinari di
acquisto titoli sui mercati da parte dalla BCE
sospendendo la capital key a favore dell’Italia,
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• la riallocazione di fondi europei da parte della
Commissione di cui avevamo perso il titolo all’uso,
• i crediti straordinari annunciati dalla BEI,
• la quota per il nostro Paese derivante dal SURE,
• i 2 punti di PIL del nuovo MES non condizionato che alla
spesa sanitaria diretta e indiretta,
• e il Recovery Fund nella versione annunciata,
l’Italia totalizza un ordine di risorse a disposizione nei
prossimi anni pari a più del 25% del proprio PIL.
E’ un’occasione storica. Disconoscere che questa volta
l’Europa – a cominciare da Germania e Francia - ha
imboccato la via dell’estensione del proprio bilancio con un
debito pubblico proprio, e ha messo in moto risorse come
nel post 2008 e post 2011 non seppe fare, è un errore
gravissimo per l’Italia.
Non fatelo. E usate il MES sanitario, liberando risorse che
servono anche ad altro.
Non preferite la via di un ancor più massiccio indebitamento
con emissioni nazionali: non solo costa di più, ma ricorrere
a titoli pubblici esentasse aggraverebbe ulteriormente il
freno già enorme all’affluenza del risparmio nazionale alle
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imprese, visto che già oggi la rendita da titoli pubblici è
tassata al 12,5% mentre i capital gain lo sono al 26%.
Di fronte alla stagnazione in cui eravamo già mesi fa, agli
effetti drammatici del lockdown, abbiamo effettuato una
ricognizione in profondità dei gap da colmare ereditati dal
passato, organizzata in 5 capitoli – sviluppo e imprese; i
processi di innovazione; la sostenibilità ambientale e sociale
dello sviluppo; la demografia e le diseguaglianze di reddito;
la PA e gli assetti istituzionali – abbiamo chiamato a
confronto esperti, professionisti e rappresentanti delle
istituzioni a cominciare da Bankitalia, a loro abbiamo affidato
la sintesi e la redazione delle analisi e proposte, ne abbiamo
fatto un rapporto intitolato Italia 2030, e infine lo abbiamo
aggiornato agli effetti del COVID per proporlo ora a tutti
come base della visione di Confindustria.
Gliene consegnerò copia al termine del mio intervento,
Presidente Conte, e sarà nostra cura farlo pervenire a tutti i
membri del Governo.
In questa sede mi limito a illustrarvi le nostre tre priorità di
metodo, e ad avanzare infine solo alcune proposte
conseguenti, a titolo di esempio.
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Le priorità più essenziali – direi “trasversali” alle misure da
varare - sono tre.
La prima è la produttività: la grande assente da 25 anni
nel dibattito pubblico italiano, 25 anni di sostanziale
stagnazione a differenza che negli altri Paesi avanzati.
La produttività stagnante ha effetti che si cumulano
negativamente non solo nella produzione, ma nell’intera
sostenibilità dell’Italia.
Rende infatti sempre meno sostenibile il debito pubblico,
perché abbassando di anno in anno il PIL potenziale rende
l’aumento del PIL nominale sempre inferiore al sia pur molto
diminuito onere annuale del debito pubblico.
Ogni timida ripresa italiana, porta ad un rilancio degli
occupati che diverge dall’andamento del valore aggiunto,
cioè alimenta un’occupazione a bassa qualifica e basso
reddito.
Inoltre la produttività stagnante scoraggia la crescita
dimensionale delle imprese, la loro maggior
patrimonializzazione, la loro ascesa nelle catene di fornitura
internazionali, e i loro margini da destinare a investimenti.
Su questa priorità, noi la pensiamo esattamente come la
Banca d’Italia, come il governatore Ignazio Visco ha detto
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nelle sue ultime considerazioni finali, e come ha ripetuto
intervenendo qui.
Abbiamo una vastissima letteratura accumulata in 20 anni,
e ogni anno in primavera il rapporto produttività dell’ISTAT
aggiorna i dati che indicano con estrema precisione dove si
annida il problema
Non nelle imprese della manifattura che esportano:
sottoposte come sono ai morsi della competitività
internazionale esse hanno continuato a dare un apporto
positivo e in ascesa alla produttività multifattoriale.
Il contributo negativo alla produttività viene dal terziario non
di mercato, cioè dalla PA e dai servizi pubblici. E insieme da
vaste aree del terziario di mercato, gestite però in regime di
concessione pubblica, di prezzi amministrati, e-o sottratti
alla logica di concorrenza e gare trasparenti.
Noi faremo una grande battaglia per la produttività del
lavoro, ponendola al centro dei rinnovi contrattuali e
parlandone con il sindacato. Oggi quasi il 90% dei contratti
è scaduto o in scadenza, ma l’indicatore IPCA dei prezzi al
netto dell’import energetico che si usa per i benchmark dei
rinnovi indica attualmente andamenti salariali stagnati o
negativi di cui nessuno avverte il bisogno. Per questo
occorre ridefinire dal basso, tra imprese e sindacati, una
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visione condivisa del nuovo lavoro, della sua organizzazione,
delle sue qualifiche, centrata e misurata sulla produttività e
sull’estensione dei diritti alla formazione, del welfare
aziendale, dell’eguaglianza di genere e della coerenza tra
organizzazione del lavoro e cura parentale.
Ma tutto ciò riguarda solo una delle componenti della
produttività: quella del lavoro.
La vera emergenza è la bassa produttività del capitale
finanziario investito, di quella del capitale fisico, e degli
intangibles.
Su questo serve una rivoluzione della visione pubblica
pluriennale da parte dei governi.
Significa non solo una PA misurata a propria volta, nella sua
organizzazione e nei suoi contratti, su base di precisi
parametri di produttività se vogliamo risolvere, ad esempio,
il problema storico dell’incapacità di presentare progetti in
linea con gli standard dei Fondi Europei.
Significa una tassazione diversa degli intangibles, non solo
il modestissimo esempio del Patent Box che si è rivelato
fonte di infinite controversie interpretative.
Significa com’è ovvio la ripresa potenziata in grande stile di
Industria 4.0, non solo sui beni fisici strumentali ma anche
estesa al Fintech 4.0.
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Significa l’adozione di un modello preciso iper-incentivato
per il trasferimento tecnologico tra ricerca e imprese.
Significa avere una visione precisa sulla qualificazione
dell’offerta formativa della nostra istruzione secondaria,
terziaria e post terziaria. Non si può limitare il problema della
formazione pubblica agli organici perennemente in affanno
e la vetustà del nostro patrimonio immobiliare dedicato.
E occorre agganciare tutto questo alle politiche di
formazione permanente su cui ridisegnare i contratti
aziendali e le politiche attive del lavoro, che vanno al più
presto riseparate dall’abbraccio mortale dell’inglobamento
nel Reddito di Cittadinanza che, nella sua componente
positiva di estensione del contrasto alla povertà, ha tutt’altre
finalità e metriche.
Significa avere una visione chiara sull’economia digitale, che
ci vede quart’ultimi nella UE. Risolvendo senza espropri a
privati il nodo della rete ultralarga. E con un
cronoprogramma preciso per l’abolizione massima della
carta nei servizi pubblici come nella giustizia.
E significa avere infine una visione del mercato che
costituisca una svolta rispetto alla tendenza sempre più
ampia di procedere a deroghe rispetto a gare trasparenti:
perché nell’opacità di forniture relazionali si annida non solo
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una fonte certa di sprechi pubblici, ma di pessimi
comportamenti collusivi anche tra privati. Se le gare hanno
tempi infiniti bisogna ridisciplinarle per ammontare con
tempi certi, non derogarle e abolirle.
Come vedete, è una priorità assolutamente trasversale.
La seconda priorità trasversale è quella della
misurazione di qualità ed efficacia della spesa
pubblica.
Non si può pensare che risolveremo il problema con cui
siamo alle prese da 25 anni semplicemente ignorandolo. E
che per risolverlo, basta avere più spesa, più deficit e più
debito, o se volete oggi più debito a basso costo e più
trasferimenti dall’Europa.
No, è un errore, sarebbe un’illusione. A questo punto molto
pericolosa: perché la sospensione del patto di stabilità UE
non sarà eterno, e perché un simile ammontare di risorse lo
avremo a disposizione non solo se presentiamo come Italia
un piano serio e credibile, ma se questa volta i risultati anno
dopo anno saranno lì a testimoniare che gli esiti raggiunti
sono apprezzabili.
Potete stanziare tutte le cifre che volete, ma se come
avvenuto per la Cassa-Covid lo fate ignorando che molte
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Regioni non hanno risorse e personale per processare in
pochi giorni migliaia di pratiche, i soldi non arrivano.
Potete estendere per trimestri e trimestri il divieto di
assunzione accompagnato alla Cig per i lavoratori,
ottenendo così che non figurino come disoccupati, ma
ritardando la ristrutturazione delle imprese, gli investimenti
e l’occupazione aggiuntiva. Alla fine avrete bruciato miliardi
che ben diversamente avrebbero potuto essere utilizzati a
sostegno della crescita vera.
E’ lo stesso mancato criterio di misurazione degli effetti
comparati di spesa sostenuta, quello che ha indotto a misure
come la nazionalizzazione di Alitalia accompagnata da
misure ostili ai suoi concorrenti, o che potrebbe portarvi alla
nazionalizzazione di ILVA senza avere un credibile piano
industriale.
O che vi ha fatto immaginare un fondo di dotazione per CDP
spinto fino a 44 miliardi e con un orizzonte di 12 anni, per
entrare nel capitale delle imprese private.
Su che base di stima comparata degli effetti di tali cifre,
vengono assunte queste decisioni?
Un altro esempio amaro della nostra bassa capacità di
misurare la spesa pubblica: gli effetti sociali. Siamo il Paese
europeo con il welfare più squilibrato, e insieme ostile alla
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crescita, alla famiglia e a chi ha meno. Abbiamo aumentato
in 25 anni di 2,3 volte il totale della spesa sociale del nostro
Paese: ma essa è pericolosamente spostata per la più alta
percentuale verso le pensioni, col risultato che resta assai
meno che negli altri Paesi avanzati per chi ha meno reddito,
per i giovani, il sostegno alla famiglia e al lavoro femminile,
e per le politiche attive del lavoro.
Caro Presidente Conte ci ascolti: è il momento di costituire
– al MEF o al ministero della PA, vedete voi – un’unità
autonoma di valutazione comparata degli effetti attesi dalle
misure di spesa e investimento pubblico, non elaborati sulla
base di modelli macroeconomici bensì microeconomici,
basati cioè sulla quantità di misure attuative e sulle
procedure vigenti all’atto dell’emanazione per misurarne ex
ante le stime, e controllarne ex post nel tempo i concreti
risultati prodotti nell’economia italiana.
Sarebbe una riforma comparabile per importanza ai decreti
di unificazione amministrativa italiana del 1865.
Senza questi nuovi criteri, il rischio di sprecare
quest’occasione storica di ripresa vigorosa del Pil e del
reddito degli italiani a nostro giudizio diventa elevatissimo.
E infatti, proponiamo anche una terza priorità. A
garanzia del nostro futuro.
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Serve da subito anche una cornice credibile
pluriennale di sostenibilità della finanza pubblica
italiana e di riduzione del debito pubblico.
Troverete nel volume che vi consegneremo una specifica
approfondita riflessione dedicata a come in un orizzonte di
medio periodo affrontare e ridurre in maniera strutturale il
maxi debito pubblico italiano, che ha continuato a renderci
il Paese Ue più esposto ai venti di ogni crisi. E che ci ha visto
colpiti dal virus con molta minor capacità d’intervento
rispetto agli altri grandi Paesi europei.
Il debito pubblico salirà quest’anno e all’inizio del prossimo
verso un ammontare intorno al 160% del PIL, mentre quello
europeo salirà anch’esso, ma restando, secondo le attuali
stime della Commissione, nell’ordine di 60 punti inferiore.
Serve per questo a nostro avviso un vero e proprio
memorandum di orizzonte quantomeno decennale tra Italia
e Ue, in cui definire un ragionevole percorso di abbattimento
del debito, per giustificare ancor meglio il sostegno europeo
per gli ingenti investimenti cui l’Italia sarà chiamata per
anni.
Quanto detto prima implica riforme per riequilibrare
perimetro ed efficienza della spesa pubblica, riorientando la
spesa sociale verso indigenti, giovani e famiglie, affrontando
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i gap sociali e geografici di reddito e partecipazione al
mercato del lavoro che in questi anni sono diventati
esplosivi, e riformando il fisco in una prospettiva organica e
con tappe pluriennali per renderlo leva e non ostacolo allo
sviluppo di imprese e lavoro.
Ma tutto ciò deve essere incardinato su una via, scandita a
tappe dal 2023, fatta in parte di avanzi primari sostenibili,
dall’altra però non di attese di crescita nominale del Pil
illusorie e infondate, come sempre avvenuto in 20 anni.
Bensì utilizzando a tal fine anche l’intera offerta di strumenti
che l’ordinamento europeo mette a disposizione e al
sostegno di chi riduca credibilmente il debito, innalzando e
moltiplicando la qualità della spesa pubblica.
Ce ne rediamo conto: non è una prospettiva piacevole.
Ma è seria e necessaria.
Serve a impedire che altrimenti, se non saremo stati noi
come Italia a darci un piano simile, il giorno in cui la BCE
dovrà rientrare dagli acquisti senza capital key e si
ripristinasse il patto di stabilità UE, il nostro Paese si trovi
esposto a una nuova devastante crisi di accesso ai mercati
per i suoi titoli.
Questo rischio va scongiurato sin d’ora.
Ecco le nostre tre priorità trasversali.
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E come imprese siamo consapevoli di dover cambiare
noi per prime.
Concentreremo dunque le risorse delle imprese su alcune
priorità essenziali.
Investimenti in innovazione e ricerca, capitale umano,
sostenibilità ambientale e sociale delle nostre produzioni,
nuove forme organizzative e contrattuali, proiettività
internazionale, estensione delle nostre presenze e quote in
mercati strategici e filiere innovative.
Lo faremo in piena cooperazione con le Confindustrie di tutti
i Paesi europei, perché crediamo in un destino comune. Lo
faremo perché amiamo l’Italia, e non la vogliamo isolata dal
mondo.
Ma da subito, presidente Conte, prima ancora di coinvolgerci
come speriamo nelle prossime settimane e mesi in un
processo di ascolto e confronto continuo e proficuo sulle
misure che vorrete apprestare di qui fino alla prossima legge
di bilancio compresa, lanci qualche segnale immediato.
Ci dica presto come intendete operare sulla leva
fiscale, come il cuneo fiscale, non solo in questo 2020,
ma a regime dall’anno prossimo.
Sciolga i nodi INPS e ANPAL, entrambi gravati da serie
anomalie e incompatibilità.
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Ci dica subito se su automotive, siderurgia e filiere
dell’export potremo contare su misure ad hoc come
quelle messe in campo da altri grandi Paesi europei.
Diceva Leo Longanesi che le religioni basano spesso nella
storia il loro successo sul non essere troppo chiare, e difronte
al mistero i credenti aumentano.
Non è tempo per le istituzioni e la politica in Italia di adottare
lo stesso criterio.
Meglio essere chiari e anche ruvidi oggi, che dovercene
pentire domani.