lunedì 31 maggio 2010

MANOVRA ECONOMICA: Un sacrificio contenuto

"L’Europa ha vissuto per troppi anni al di sopra delle sue possibilità". Queste parole dette da Silvio Berlusconi tre giorni fa, durante la conferenza stampa assieme al presidente della Commissione europea Josè Barroso, spiegano perché anche l’Italia deve ricorrere ora ad una manovra per correggere il proprio deficit, iniziare a risanare il debito ed agire in maniera strutturale su fonti di spesa che altrimenti rischiavano di andare fuori controllo.
L’operazione da 24 miliardi di euro in due anni, che essendo previsti come strutturali, e quindi permanenti, già per i 12 del primo anno, potrà valere a regime per 36 miliardi, inciderà per oltre due punti di Pil (circa 1.500 miliardi l’anno). Ciò significa che il nostro disavanzo, attualmente di poco superiore al 5 per cento del Prodotto interno lordo, rientrerà a fine del 2012 al di sotto di quel tre per cento fissati dai parametri europei.

Questo è tecnicamente l’obiettivo della manovra e questo è quanto è stato richiesto all’Italia sia dalla commissione Ue sia dal consiglio dei governi europei. Il nostro Paese è in una situazione particolare: non è tra quelli a rischio, come Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda, perché negli ultimi tempi ha praticato una politica accorta di coesione sociale, senza cioè salvare le banche o le industrie con denari pubblici. Né, come la Grecia, ha truccato i conti. E neppure ha puntato tutto sulla finanza e sulla speculazione immobiliare, come Spagna e Irlanda.

Per questo negli ultimi due anni il nostro debito pubblico è cresciuto meno di tutti gli altri importanti paesi europei (un po’ meglio di noi hanno fatto Lussemburgo, Malta, Cipro e Slovacchia): il debito italiano cresce tendenzialmente – cioè senza correzioni – del 14,3 per cento rispetto alla media dell’Ue del 22,3. Stiamo andando un po’ meglio della Germania, molto meglio della Francia (23,8) e della Spagna (37,8).

Ma come è noto l’Italia si trascina da anni un debito superiore al 100 per cento del Pil, debito che è frutto della spesa allegra dei governi della prima repubblica, ma anche dell’autonomia disinvolta concessa alle regioni dalla riforma costituzionale voluta dalla sinistra al termine del suo governo 1996-2001: quando soprattutto si decise di dare alle regioni un potere esclusivo in materia sanitaria, senza accompagnarla da vincoli di responsabilità.
Quella decisione ha fatto impennare il debito, soprattutto nel Lazio, Campania, Calabria. Si tratta di regioni che appena due mesi fa il centrodestra ha strappato alla sinistra, ed ora è sulle spalle delle giunte moderate che ricarrà il peso del risanamento dei guasti altrui. L’intervento sulla sanità non era tuttavia rimandabile: spetterà ai governatori agire senza introdurre sacrifici per i cittadini, ma riducendo gli sprechi e razionalizzando i centri di spesa. Basta pensare che solo il Lazio ha un debito della sanità di oltre 10 miliardi, una gran parte della manovra attuale.
L’altro fronte di intervento è il pubblico impiego. Il congelamento per tre anni dei contratti non significa affatto una riduzione degli stipendi, solo la fotografia dell’esistente: che peraltro vede la dinamica delle retribuzioni nel pubblico impiego cresciuta da circa dieci anni a questa parte di quasi il doppio rispetto al settore privato: il 42,5 per cento rispetto al 24,8. I dipendenti dello Stato, ai quali è richiesto ora un sacrificio, hanno in altri termini potuto beneficiare sia di un maggior potere d’acquisto sia della stabilità del posto di lavoro.

Ecco perché si è inciso soprattutto su questi capitoli di spesa, e lo si è fatto in maniera strutturale, non con semplici rinvii. Nessun taglio alle pensioni, nessun taglio alle retribuzioni, nessun licenziamento; il governo introduce invece misure di economia e moralità nella politica, nei partiti, nel Parlamento, tra i dirigenti dello Stato. Insomma nessuna misura davvero lacrime e sangue a danno del ceto medio come quelle che invece devono prendere paesi non solo sull’orlo del fallimento come la Grecia, o a rischio come la Spagna, ma anche le potenze centrali dell’Europa, Francia e Germania. Grecia a parte, perché è di fatto commissariata, basta pensare all’entità delle manovre altrui: la Spagna ne ha decisa una da 50 miliardi alla quale si è aggiunto un supplemento di 15 miliardi. La Francia una da 100 miliardi di euro in tre anni. La Germania taglierà 10 miliardi da qui al 2016; vale a dire 60 miliardi.
Il sacrificio dell’Italia è minore, perché il governo aveva bene operato nei due anni precedenti. Ma pur sempre di sacrificio si tratta. L’Europa deve però rientrare dai propri debiti e dagli sprechi degli anni e dei decenni precedenti. Molti hanno un welfare che non si possono permettere.

Noi abbiamo un sistema pensionistico che garantisce il massimo di copertura con l’equilibrio contabile.

Abbiamo la sanità per tutti, nonostante gli sprechi.

Abbiamo gli ammortizzatori sociali per chi vede il lavoro a rischio.

Abbiamo il minimo di disoccupazione.
E, nonostante tutto ciò che si dice, abbiamo anche la pressione fiscale più bassa: basta andare a vedere le aliquote sui redditi dei paesi nostri partner; sono tutte più alte delle nostre.

Non è certamente piacevole operare dei tagli al termine di due anni di crisi, quando l’economia si sta riprendendo. Ma proprio le crisi portano la necessità di fare pulizia nei conti, e l’Italia deve difendere la propria posizione dentro l’euro. Chi non l’ha fatto, o è arrivato in ritardo, subisce conseguenze ben peggiori, come la Spagna.

Questa sarà del resto l’ultima tornata di sacrifici chiesta al nostro Paese. Il tempo della ripresa è già arrivato, ci sarà lo sviluppo. E la legislatura è ancora molto lunga.

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